Rileggendo un testo suggerito da Stefano Del Bove nel corso del Diploma in Leadership e Management, ritrovo un passo commentato con le colleghe di studio Claudia Patricia Barrientos Cambara de Perez e Luisa Merluzzi e con i colleghi Roberto Museo, Giorgio Amodeo e Massimo Massaro qualche tempo fa. L'autore scrive: Così chiede Henry Nouwen nel testo “Il sentiero del potere”. Titolo evocativo di realtà grandiose e che racconta come la vera leadership di cui oggi abbiamo bisogno parta da un elogio della debolezza, piuttosto che dell’aggressività e della violenza. Allo stesso modo, è il Vangelo di questi giorni a metterci davanti a uno dei gesti più destabilizzanti della vicenda gesuana: un uomo, intuito dai suoi come qualcuno di grande e da loro fortemente voluto come colui che avrebbe ristabilito il regno di potenza di un Israele legato all’immagine di un Dio militante (cfr. At 1,6-7)… ebbene quell’uomo, per niente diverso dagli altri con i quali sedeva a tavola… quell’uomo Gesù, prima del pasto, si cinge un asciugamano, versa l’acqua nel catino e comincia a lavare i piedi ai presenti. La scena narrata nel 13° capitolo del vangelo di Giovanni racconta di un gesto tanto intimo e familiare, quanto rivoluzionario e profetico. Nello sbigottimento generale, Gesù lava i piedi ai suoi discepoli e alle sue discepole, reinterpretando la leadership in modo radicale. Mentre la narrazione evangelica lascia un vuoto sulla presenza delle donne – tanto che l’immaginario comune le ha quasi dimenticate – gli uomini discutono dei posti di potere da occupare una volta ristabilito il regno (Lc 22,24-27). Gesù, senza scomporsi, non ribatte con una predica sul potere. Due, tre parole, uno scambio di battute e la scena diventa il capovolgimento di ogni logica mondana. La corona messianica, che i discepoli si aspettavano, si rivela non essere di oro, ma di servizio; non di dominio, ma di relazione. È proprio attraverso la categoria di relazione che possiamo leggere la storia dell’umanità ed è attraverso le relazioni che possiamo interpretare la nostra quotidianità. Relazioni che ci segnano attraverso la cura o a causa di una ferita, relazioni che ci sollevano verso desideri di pienezza o che ci imbrigliano in nodi e catene di miseria. Dio è relazione (cfr. C. Theobald; cfr. J.P. Lieggi) ed è attraverso la relazione che si fa conoscere come il Dio della vita, il Dio dell’amore, il Dio della grazia. Il gesto di Gesù racconta che nella relazione particolare con ciascuna delle sue figlie e con ciascuno dei suoi figli, il Dio materno e paterno capovolge i modelli di leadership dei dominatori del mondo. Questo gesto anticipa e fonda un modello di leadership che oggi potremmo definire “servant leadership”, così come l’ha teorizzata Robert Greenleaf: una leadership che nasce dall’ascolto, dalla responsabilità e dalla volontà di far crescere gli altri. Il leader, in questo modello, è prima di tutto un servitore: colui che si mette in un posto senza etichette, sia esso il primo o l’ultimo. Egli è al posto giusto, ovvero il posto nel quale è possibile portare avanti la visione comune della fraternità e accompagnare gli altri verso il proprio compimento. Diversi commentatori amano usare per la lavanda dei piedi l’opposizione tra “primo” e “ultimo” posto. È una possibilità. Preferisco andare oltre le opposizioni polari: non siamo solo qualcosa o il suo contrario, ma un mistero di sintesi in divenire. Ciascuno di noi è un mistero di sintesi, di progetti, di avanzamenti e regressioni. Non siamo caselle, ma persone e relazione. Allora ecco che Gesù è nel posto del leader non perché avanti o dietro, ma semplicemente perché sa vedere la realtà, sa individuare il posto adatto all’azione e nelle parole e nei gesti diventa motore del cambiamento necessario. La servant leadership di Gesù è la leadership di colui che sa stare nel posto dove deve essere e sa compiere le azioni che vanno compiute. Gesù mostra che il vero potere non sta nell’imposizione, ma nella dedizione. Che la grandezza non si misura dal numero di persone che ti obbediscono, ma da quante riesci ad amare fino alla fine (Gv 13,1). Continua Nouwen: Le parole di Nouwen sono azzeccate per i nostri giorni, sebbene siano state scritte sul finire del secolo scorso. Ed è proprio al cuore di questa spirale ansiogena che il Vangelo della Settimana Santa oppone una scena disarmante e ci fanno chiedere: come si esce dal vortice del desiderio di un potere sempre più forte? Come si ritrovano la misura della debolezza e la virtù della benevolenza grazie alle quali riuscire a scoprire e apprezzare la pienezza di senso che la vita già custodisce in sé? Contempliamo il Cristo e nell’incontro con la sua tenerezza e misericordia lasciamoci lavare i piedi da lui. La lavanda dei piedi è un atto profetico: distrugge la maschera del leader infallibile e invulnerabile che vogliamo per noi stessi e che proprio per un desiderio di realizzazione narcisistica, come i discepoli, anche noi vorremmo poter applicare al Figlio di Dio. In un tempo in cui si moltiplicano modelli autoritari - anche nei contesti religiosi e aziendali - il gesto di Gesù è ancora più necessario. Esso ci ricorda che la leadership autentica non è una forma di potere, ma una forma di amore incarnato. Non è un trono, ma un cammino condiviso. Non è una medaglia da esibire, ma un catino da portare con sé. La corona e il catino non sono due simboli opposti, ma due facce dello stesso mistero. Riconoscendo la propria statura e piccolezza possiamo lasciarci sollevare dal Maestro e, una volta messi in piedi dalla sua azione di leadership anche noi possiamo chinarci per sollevare il prossimo.
Cosimo Quaranta



















