"Noi siamo convinti con la tradizione che l’impossibile sia possibile, che cioè l’essere creato è razionalmente dimostrabile; certamente non il modo specifico della creazione, […] ma la necessità d’essere non per sé o da sé, ma ab alio, da cui segue che l’uomo è qualcosa, ma non tutto. […] La finitezza si lascia comprendere solo in contrasto con l’infinitezza, cioè in rapporto alla pienezza eterna dell’essere. La comprensione dell’essere di un tale spirito finito è in quanto tale già sempre apertura dal finito all’eterno".
[Citazione estesa di
Edith Stein nel testo Essere finito ed essere eterno]
Siamo nella seconda parte del libro della Sapienza, i cap. 7-9, in cui a parlare è Salomone. L’antico re d’Israele è chiamato in causa dall’autore del testo perché considerato modello di colui che cerca la sapienza. Divido il cap. 7 in due sezioni semplici, considerando come punto di separazione il dono divino: 7,1-16 la ricerca della sapienza; 7,17-8,1 la sapienza ricevuta (il testo si conclude con il primo versetto del cap. 8). Il v. 17 segna la divisione poiché l’autore afferma che Dio gli «ha concesso» secondo il suo desiderio. Lo stile è poetico. Paralleli di questo testo sono 1Re 3 e Sap 9. Alcuni punti di riflessione:
Nelle tappe esistenziali del tempo di vita dell’infante, il lettore/ascoltatore del testo può riconoscere se stesso ed è così implicitamente invitato a pregare per ottenere da Dio la sapienza. L’antropologia di fondo rimanda al secondo racconto del Genesi: l’uomo «plasmato» (Gen 2,7). La creazione/plasmazione avviene nell’intimo segreto dell’utero materno (Sal 139) in cui seme maschile, sangue femminile (v. 2) e azione divina si intrecciano e danno origine al mistero dei misteri: la vita dell’uomo. I vv. 3-4 accennano alla drammaticità della contingenza e finitezza dell’infante. Se non ci fossero accoglienza e cura, la sua vita non avrebbe garanzie di successo. Tutti siamo nati figli e abbiamo avuto bisogno di cure e sostegno. È in tutto il tempo di vita, poi, che “si fa l’uomo” (vedi il commento a «facciamo l’uomo» in Gen 1).
Desiderare che un altro abbia la stessa ricchezza che si possiede è (nella mia interpretazione!) una possibilità di realizzazione positiva del comando di Dio nella creazione: «Siate fecondi!» (Gen 1,28). La vocazione personale comune è far crescere la vita e la benedizione ricevute da Dio («Dio li benedisse e disse…» Gen 1,28). Dio, il Benedetto, è autore della vita e chiede che l’uomo comunichi la vita e la faccia crescere. Come la sapienza di Dio è la ricchezza davanti alla quale la vita trova senso e pienezza, così chi la comunica permette alla vita dell’altro di crescere ed essere benedetta e a sua volta benedicente. Essere fecondi si traduce con l’essere generativi di vita e questo è possibile per chiunque faccia crescere verso la pienezza la vita altrui. Essere fecondi e generativi è più che il biologico mettere al mondo. Un padre e una madre certamente sono privilegiati e chiamati per vocazione a far crescere nel bene la vita che mettono al mondo, ma anche un educatore ha la missione di essere fecondo e generativo verso i suoi educandi. Il nonno non è meno generativo del padre nelle relazioni di cura del nipote, ma viceversa anche il giovane è fecondo verso l’anziano quando lo custodisce e gli garantisce una vita che possa riconoscersi “piena” di bene.
Di Gesù non possiamo dire che sia stato fecondo nel senso biologico, ma possiamo affermarlo in modo perfetto, più che per ogni uomo e donna della storia. Quando Gesù chiama «amici» i suoi discepoli (come nel v. 14; Gv 15,15) e per tutti offre se stesso per sempre, egli è generativo attualmente (mentre lo si riceve) e anche in senso più alto (eternamente). Il pianto di Gesù su Gerusalemme (Lc 19,41) o l’esultanza di lode per la sapienza dei piccoli (Mt 11,25; Lc 10,21) sono gesti che esprimono la generatività di Gesù e il suo essere “materno e paterno” insieme verso tutti quelli che incontra. Egli, che è la sapienza da riconoscere (Mt 11,19; Lc 7,35), può dunque a ragione affermare «Venite a me e io vi darò ristoro» (Mt 11,28), ovvero senso di vita e pienezza eterna.
Paralleli e approfondimenti
Il discorso della montagna si apre con le "beatitudini" quasi autoritratto di Gesù e invito al discepolo che vuole seguirlo più da vicino a sperimentare la consolante certezza che il Regno dei cieli è già qui
Continua...La parola aramaica utilizzata per dire agnello talya’ ha anche il significato di servo/ragazzo (reminiscenza del sacrificio di Isacco, Gen 22,2-9). È allusione all’agnello pasquale poiché Cristo è salva dalla morte eterna per condurre alla vita di Dio.
Continua...Dio è benedizione e pace. Egli comunica se stesso e può essere portato ai fratelli quando l'uomo custodisce e dona vita e pace.
Continua...