I capitoli 8-10 di questa lettera riflettono sulla questione degli idolotiti, cioè le carni degli animali offerte agli idoli nei templi greco-romani. Solitamente, gli avanzi delle carni offerte nei templi, erano rivenduti al mercato (10,25) e consumati. Per Paolo la carne in sé è inoffensiva, ma per i più deboli nella fede c’è il rischio di scandalo per quello che significa la comunione con gli idoli cui erano state offerte. Perciò esorta ad astenersi dal mangiare le carni degli idolotiti, affinché non vi sia comunione mortifera con i demòni. La retorica di Paolo coinvolge il lettore/uditore come giudice della questione, facendo leva sull’intelligenza (v. 15) dei Corinzi, quasi per opporla alla banalità della superstizione di cui erano caduti vittime. Alcuni punti di riflessione:
- Comunione mortale. Mangiare le carni degli idolotiti è mortale perché gli idoli sono vuoti e senza vita. Nutrirsi di queste carni significa scegliere anche la forza vitale che da esse deriva, cioè nulla. Appellandosi alla religiosità dei Corinzi richiama il cantico di Mosè in cui si ricorda che peccato del popolo verso Dio fu spesso l’adesione agli idoli che “non sono Dio” e che non hanno “generato” l’uomo (Dt 32,17-18), né alcun essere vivente. Paolo non condanna totalmente inutile la carne (v. 19), ma mette in guardia dall’abbandonare Dio, con il quale siamo legati. Se l’alleanza è con Dio, non può esserci alleanza con altre divinità (2Cor 6,14-16).
- Comunione vitale. Nutrirsi di Cristo è ciò che cambia lo stato del cristiano in se stesso e davanti al resto del mondo. L’Israele secondo la carne (v. 18) è il vecchio Israele del quale anche Paolo ha fatto parte (Rm 7,5 “quando eravamo nella carne”). Secondo le norme del Levitico, i sacrifici di comunione (Lv 3) univano l’offerente a Dio al quale erano offerti gli animali sull’altare. In Cristo, unico e ultimo sacrificio sull’altare della croce, perpetuato nel sacrificio eucaristico (1Cor 11,23-26), siamo definitivamente uniti e perciò siamo suoi e lui è in noi. Chi mangia la sua carne e beve il suo sangue vive in eterno (Gv 6,53).
- Comunione ecclesiale. Paolo rammenta che il calice e il pane eucaristici sono comunione al corpo e sangue di Cristo (vv. 16-17). C’è di più: la comunione con Dio diventa anche unione tra noi (v. 17). Per questo magiare la carne degli idolotiti non era poi un gesto così indifferente: poiché siamo un corpo solo in Cristo (12,12), dobbiamo aver cura del cammino di fede anche dei più deboli, che da certi comportamenti potrebbero essere scandalizzati.
- Comunione sponsale. I termini comunione e gelosia richiamano l’alleanza e la metafora matrimoniale. Osea (Os 2,21) e l’Apocalisse (Ap 2,14.20) ci fanno comprendere che la comunione con gli idoli, che non sono Dio, è una prostituzione verso un’apparenza di amore che non è alleanza vitale, ma contratto mortale. Paolo ha già detto che la prostituzione agli idoli non farà ereditare il Regno di Dio (6,9).
La gelosia divina è la nostra salvezza. È l’ardore con cui Dio desidera che nessuno dei suoi figli sia perduto, ma tutti siano eternamente in comunione con Lui. Cristo crocifisso è il segno di questa gelosia che raggiunge le estreme debolezze umane per attirare ognuno verso la comunione e la misericordia del Padre.
Paralleli e approfondimenti
- Istituzione dell’Eucarestia (Mt 26,26-29; Mc 14,22-25; Lc 22,14-20; 1Cor 11,23-26)
- Gelosia divina (Esodo 20,5; Dt 4,24; 32,16-19)